La dolce vita

LA DOLCE VITA
fo­to­gra­fie di Pier­lui­gi

57 fo­to­gra­fie in bian­co e nero da ne­ga­ti­vi ori­gi­na­li:  
n°  1 fo­to­gra­fia cm. 40x70 
n°  6 fo­to­gra­fie cm. 60x70
n° 15 fo­to­gra­fie cm. 40x50
n° 35 fo­to­gra­fie cm. 50x60
in­cor­ni­cia­te con cor­ni­ce nera in al­lu­mi­nio
di Pier­lui­gi (Pra­tur­lon, ori­gi­na­rio di Por­de­no­ne) fo­to­gra­fo fa­mo­so negli anni '60 – le foto della "Dolce Vita" do­cu­men­ta­no i mo­men­ti to­pi­ci della la­vo­ra­zio­ne del più fa­mo­so e mi­ti­co film di Fe­de­ri­co Fel­li­ni.

 
Nella sto­ria del ci­ne­ma ci sono pa­rec­chi «film di culto» ma sono an­co­ra ra­ris­si­mi, a tut­t’og­gi, i «film mito». Tra que­sti, senza pos­si­bi­li­tà di dub­bio, La Dolce Vita, rea­liz­za­to da Fe­de­ri­co Fel­li­ni nel 1959 e usci­to in Ita­lia nel feb­bra­io del 1960. Un mito. Che ha se­gna­to un’e­po­ca, ri­flet­ten­do­la e in­ci­den­do sul suo co­stu­me, e ne ha an­ti­ci­pa­ta un’al­tra, dal punto di vista so­cia­le e dal punto di vista este­ti­co.
L’e­po­ca ri­fles­sa sono i dif­fi­ci­li e con­tro­ver­si anni Cin­quan­ta, il co­stu­me che ha in­ci­so va dalla sem­pli­ce ter­mi­no­lo­gia (la «dolce vita», i «pa­pa­raz­zi») al modo ad­di­rit­tu­ra di ve­stir­si (i ma­glio­ni a gi­ro­col­lo, detti da al­lo­ra «dol­ce­vi­ta»); l’e­po­ca che ha an­ti­ci­pa­to an­nun­cian­do, se non apo­ca­lis­si o di­lu­vi, certo som­mo­vi­men­ti e tur­ba­men­ti, è pro­ba­bil­men­te, il ‘68, im­pli­ci­to nel­l’os­ser­va­zio­ne scon­cer­ta­ta di uo­mi­ni pre­sen­ta­ti sem­pre come se bal­las­se­ro sul vul­ca­no, in at­te­sa di pre­mo­ni­zio­ni che, ma­te­rial­men­te, po­te­va­no es­se­re be­nis­si­mo anche il pe­sce-mo­stro della se­quen­za fi­na­le di Fre­ge­ne.  Co­min­cia quasi con una vi­sio­ne. Una sta­tua di Cri­sto a brac­cia aper­te che un eli­cot­te­ro tra­spor­ta in volo su Roma. In un altro eli­cot­te­ro, che segue quel­lo che tra­spor­ta il Cri­sto, c’è Mar­cel­lo con Pa­pa­raz­zo, il suo fo­to­re­por­ter, e su­bi­to ci si mo­stra qual è per­ché, pur tra il fra­stuo­no dei ro­to­ri, si af­fan­na a chie­de­re alle ra­gaz­ze il loro nu­me­ro di te­le­fo­no. E un at­ti­mo, ed è gior­no, ma non si fa in tempo a in­tra­ve­de­re piaz­za San Pie­tro di lon­ta­no che, con una di quel­le ar­di­tez­ze strut­tu­ra­li an­ti­ci­pa­tri­ci della Nou­vel­le Vague, ci si tra­sfe­ri­sce, in piena notte, in un night-club di Via Ve­ne­to, luogo to­pi­co della pro­fes­sio­ne di cro­ni­sta mon­da­no eser­ci­ta­ta da Mar­cel­lo. Al­l’u­sci­ta di un night, pur fin­gen­do fa­sti­dio, ha avuto un mo­men­to di sod­di­sfa­zio­ne ve­den­do­si cir­con­da­to dai suoi «col­le­gh» fo­to­re­por­ters, vi­gi­li cu­sto­di e «ri­pe­ti­to­ri» di tutte le av­ven­tu­re not­tur­ne che pren­do­no l’av­vio in Via Ve­ne­to. I fo­to­re­por­ters e Via Ve­ne­to: è qui il bal­let­to d’av­vio di tutti "pa­pa­raz­zi". Un’al­tra sto­ria aspet­ta, forse la più cor­po­sa, l’ar­ri­vo a Ciam­pi­no di una fa­mo­sa diva ame­ri­ca­na, Syl­via, di cui il gior­na­li­sta Mar­cel­lo non può fare a meno di ri­fe­ri­re. Dopo i "mo­stri" del ci­ne­ma, della cul­tu­ra, del pas­sa­to, quel­li, già quasi ca­da­ve­ri, del­l’a­ri­sto­cra­zia. Cosa resta ora a Mar­cel­lo? Di scen­de­re sem­pre più in basso, ri­nun­cian­do per­fi­no al gior­na­li­smo per di­ven­ta­re solo l’ad­det­to stam­pa di un divo alla moda, che ac­com­pa­gna, per com­pia­ce­re, in una villa di Fre­ge­ne, in una festa metà orgia in tutto ormai si­mi­le a lui: gon­fia, vol­ga­re, sto­na­ta, po­po­la­ta da una fauna a con­fron­to della quale quel­la dei nights, del ca­stel­lo dei no­bi­li era quasi un pro­di­gio di raf­fi­na­tez­za. L’i­ti­ne­ra­rio è com­piu­to. L’in­te­ra strut­tu­ra del film che, ap­pun­to, in­no­van­do dal prin­ci­pio alla fine e por­tan­do una ven­ta­ta d’a­ria nuova nel ci­ne­ma tra­di­zio­na­le degli anni Cin­quan­ta, così come, sto­ri­ca­men­te, an­ti­ci­pa­va il ‘68, este­ti­ca­men­te an­ti­ci­pa­va la Nou­vel­le Vague: sia nella ri­cer­ca di un nuovo tempo ci­ne­ma­to­gra­fi­co, sia nella co­stru­zio­ne ri­vo­lu­zio­na­ria di nuove forme di rac­con­to. Di­ce­va Pier Paolo Pa­so­li­ni nel Ses­san­ta: La Dolce Vita di Fel­li­ni è trop­po im­por­tan­te per­ché se ne possa par­la­re come si fa di so­li­to di un film». Più tardi Otto e mezzo verrà a dirci tutto di Fel­li­ni; La Dolce Vita, men­tre ci di­ce­va tutto di noi, ha sa­pu­to dirci tutto del ci­ne­ma che si stava pre­pa­ran­do. E che è quel­lo di oggi.

Fe­de­ri­co Fel­li­ni sul film«Mi rendo conto che La Dolce Vita ha co­sti­tui­to un fe­no­me­no che è an­da­to al di là del film stes­so. Dal punto di vista del co­stu­me, ma anche forse di qual­che in­no­va­zio­ne. Ho do­vu­to di­fen­der­lo con le bombe. Io l’ho fatto come fac­cio tutti i film: per li­be­rar­me­ne e so­prat­tut­to per la spu­do­ra­ta vo­glia di rac­con­ta­re. Mi pare che il nu­tri­men­to, anche per quan­to ri­guar­da la for­ma­zio­ne delle im­ma­gi­ni, fosse rap­pre­sen­ta­to dalla vita pro­po­sta dai ro­to­cal­chi, La Dolce Vita è anche Mar­cel­lo Ma­stro­ian­ni. In­fi­ne c’è Via Ve­ne­to. Nel Tea­tro 5, nel­l’a­go­sto del 1959, lo sce­no­gra­fo Pie­tro Ghe­rar­di ri­co­struì in­te­ra­men­te Via Ve­ne­to per La Dolce Vita: e da quel mo­men­to per me Ci­ne­cit­tà ha so­sti­tui­to il mondo. La Via Ve­ne­to ri­co­strui­ta da Ghe­rar­di a Ci­ne­cit­tà era esat­ta fino nei più mi­nu­ti par­ti­co­la­ri, ma aveva una ca­rat­te­ri­sti­ca: era in piano in­ve­ce che in sa­li­ta. La­vo­ran­do­ci mi abi­tuai tanto a quel­le pro­spet­ti­ve che la mia in­sof­fe­ren­za per la Via Ve­ne­to au­ten­ti­ca creb­be an­co­ra e ormai, credo, non scom­pa­ri­rà più. Quan­do passo da­van­ti al Café de Paris non posso im­pe­dir­mi di sen­ti­re che la vera Via Ve­ne­to era quel­la del Tea­tro 5, che le di­men­sio­ni della stra­da ri­fat­ta erano più esat­te e co­mun­que più sim­pa­ti­che.»